di Enrico Casarini, da L’Europeo n. 43 del26/10/1990

Per gli esperti, e per i suoi colleghi, non ci sono dubbi: è lui il più bravo. Ora racconta trent’anni di avventure. E sono rigorosamente firmate Walt Disney.

Il disegnatore veneziano Romano Scarpa al suo tavolo di lavoro. Scarpa è apprezzato non soltanto per la qualità del suo tratto e delle storie che ha inventato, ma soprattutto per la sua creatività che ha dato vita a diversi personaggi oggi popolari anche negli USA: Brigitta, Trudy, Filo Sganga, Gancio, Paperetta Yè Yè e altri.
Il disegnatore veneziano Romano Scarpa al suo tavolo di lavoro. Scarpa è apprezzato non soltanto per la qualità del suo tratto e delle storie che ha inventato, ma soprattutto per la sua creatività che ha dato vita a diversi personaggi oggi popolari anche negli USA: Brigitta, Trudy, Filo Sganga, Gancio, Paperetta Yè Yè e altri.

Topolinia, provincia di Venezia. Anzi: Venezia stessa, sestiere di Cannaregio. Ci si arriva dalla chiesa di San Giovanni Grisostomo, per una calle tanto stretta che la minuscola corte dove si sbuca sembra una piazza. Qui si affaccia una palazzina, sobriamente in disarmo. Al terzo piano, dietro una porta rossa, c’è Topolinia. O Paperopoli, se si vuole, tanto al campanello apre sempre Romano Scarpa, classe 1927, uno dei grandi disegnatori (meglio: autori) del Disney nostrano. Quest’anno i soci dell’Anaf (L’associazione italiana degli amatori del fumetto) l’hanno eletto miglior autore italiano. E creare ha creato: circa 400 storie disneyane, e, soprattutto, una manciata di personaggi, usati oggi anche in America, da Brigitta, l’assillante corteggiatrice di Paperone, a Trudy, la compagna di Pietro Gambadilegno, a Gancio e Gancetto, padre e figlio amici di Topolino.
Topolinia, si diceva, perché Scarpa (gli sfugge dagli occhi azzurri, più che dalla bocca: è diplomatico come i suoi padri serenissimi) preferisce Topolino, sia sentimentalmente, sia come soggetto di lavoro.
Imbarazzato, tormentando le stanghette degli occhiali, mostra il suo studio, cioè il salotto di casa: c’è un banco, con sopra una lastra di vetro inclinata da un tubo al neon la cui luce permette di far spiccare meglio i tratti della matita. Pochi i fogli, qualche schizzo, alcuni libri, molte videoacssette (film che non riesce a vedere), e — pochi — personaggi di Disney, riprodotti in gadget, che fanno bonaria guardia al loro papà, che non poltrisca.

Enrico Casarini: Scarpa, ora è finito l’anonimato degli autori e sappiamo che anche in Italia i “Walt Disney” sono stati parecchi. Le è pesata molto questa situazione?

Romano Scarpa: Non era consentito per contratto fare il nome dei collaboratori, e questo succedeva anche in America e nelle altre parti del mondo. Noi appassionati — io ero un ragazzino fanatico di quelle storie — andavamo a occhio nel distinguere gli stili differenti.

E. C.: E quali caratteristiche vi aiutavano?

R. S.: C’era la stessa forma nei personaggi base, ma noi vedevamo la differenza nel fatto che queste figure erano più o meno tondeggiate; c’era chi le arrotondava un po’ di più, nei dettagli naturalmente, e chi le faceva un po’ più squadrate, schematiche. Mi ricordo che si osservava quello che per noi era il migliore, e si sarebbe saputo vent’anni dopo che si chiamava Floyd Gottfredson, che era il non plus ultra: era quello che per noi era Disney; e infatti aveva cominciato proprio con Disney, con l’animazione, poi è passato al fumetto, controvoglia. Non vedeva l’ora che lo richiamassero a fare l’animazione. Dopo un po’ ha cominciato a temere che lo richiamassero, perché s’era appassionato… Noi, quando siamo entrati a realizzare queste storie, abbiamo accettato l’anonimato, ma senza troppo fastidio o rancore verso chi ce lo faceva fare, perché in fondo a noi piaceva farle queste cose qua, piaceva moltissimo il mondo disneyano, ci piacevano enormemente quei personaggi, e così ci siamo tuffati.

E. C.: Non ha mai chiesto neppure una firma?

R. S.: Si vede che non sono un egocentrico, ma ero più orgoglioso di mettere la firma “Walt Disney”: era una vanagloria, per carità, però l’orgoglio era tale… Ho addirittura scritto agli Americani per chiederglielo!

E. C.: Se poteva firmare “Walt Disney”?

R. S.: Esatto: parlo di circa 30 anni fa. Dopo aver fatto le prime storie, gli ho mandato un campione: Mi ritenete in grado di mettere la firma?… ho ancora la lettera: loro non avevano niente in contrario, se volevo potevo metterla. Poi col tempo s’è lasciato perdere.

E. C.: Anche perchè la morte di Disney avrebbe svelato il trucco.

R. S.: Il pubblico si sarebbe domandato: Ma come fa a esserci la firma di Walt Disney che è morto? Quindi non era il caso… E quando Disney non c’è stato più è stato un momento di panico, perché non si sapeva come avrebbero reagito i lettori. C’era cioè il timore di un netto calo della diffusione del giornale. Io ricorderò sempre le parole del grande Arnoldo Mondadori, che in tivù aveva commentato questa perdita con un forte rimpianto, logicamente, ma assicurando i lettori che Disney aveva lasciato una tale eredità, culturale e artistica, che la produzione attuale avrebbe potuto benissimo continuare come se lui ci fosse stato ancora. In effetti il calo non ci fu. Anzi: tutt’altro.

E. C.: A che tirature arrivò Topolino?

R. S.: Nei tempi d’oro, gli anni Settanta, prima delle flessioni dovute soprattutto alla televisione, era arrivato a um milione e due, trecentomila copie. E — bisogna dire — con materiale in gran parte nostrano, perché dall’America non è mai arrivato un quantitativo sufficiente per coprire il fabbisogno del nostro Topolino.

E. C.: Che caratteristiche aveva il tratto italiano?

R. S.: In effetti il personaggio assumeva un aspetto un po’ più bonaccione, alla maniera nostra. E soprattutto credo che quello che cambiava fosse di più l’ambientazione delle storie. Inevitabilmente noi tendevamo a fare agire questi personaggi in ambienti che erano più europei: scattava qualche angolazione non dico milanese, ma quasi…

E. C.: Parliamo dei personaggi che lei ha creato.

R. S.: Ecco: io ho avuto il piacere di essere stato riconosciuto per la qualità di certe mie storie, ma soprattutto un mio orgoglio è di avere apportato delle novità… Personaggi che poi sono stati bene accetti dagli stessi Americani.

E. C.: Un personaggio nasce un’illuminazione o dalla necessità di rimediare all’assenza di un carattere che si reputa invece necessario?

R. S.: Ha detto giusto: ne sentivo la necessità. Prenda, per esempio, Filo Sganga. Mi pareva utile, se non necessario, un personaggio che fosse il contraltare di Paperone, che è il magnate, l’intraprendente, l’efficiente, quello le cui iniziative arrivano quasi tutte a buon fine. Mettergli vicino un altro, che non fosse solo un concorrente quasi pari suo, come è Rockerduck: uno che fosse un rivale pieno di buone intenzioni, ma goffo, incapace, inetto, che perde sempre. Vorrei ricordarle una cosa, però che forse è il più grosso motivo di orgoglio della mia carriera, anche se si rifà a una storia di tanto, troppo tempo fa. Pochi anni fa il governo egiziano ha fatto dono di un preziosissimo reperto archeologico al governo italiano, per l’aiuto ricevuto nel salvataggio dei monumenti di Abu Simbel: ecco, il sistema che hanno utilizzato lo hanno ricavato dal mio Paperino e il colosso del Nilo, del 1961. Io, comunque, non ho ricevuto alcun ringraziamento, ma è bastata la soddisfazione.

E. C.: In Italia hanno avuto sempre successo le vostre parodie dei classici. I classici, naturalmente, li avevano anche gli Americani: eppure preferirono creare loro stessi storie epiche, penso soprattutto a Carl Barks. C’è una spiegazione?

R. S.: Beh, l’hanno fatto raramente, magari con personaggi secondari. Per esempio per loro Zio Tom hanno preso un altro “zio” nero, uncle Remus, in storie che da noi sono poi diventate, logicamente, i Racconti dello zio Tom, con Fratel Coniglietto. Sono stati tratti da racconti di Joel Chandler-Harris ambientati negli Stati del Sud.

E. C.: Che rapporti ha con i suoi colleghi?

R. S.: Ottimi: ci conosciamo, ci vediamo, si discute, ma più sul tono generale delle storie. Io batto e ribatto sulla necessità di non travisare il personaggio: non uscire dallo stile Disney. Anche l’originale si può interpretare, è inevitabile.
Ma l’essenziale è non uscire dallo spirito, e soprattutto fare recitare bene le loro parti ai personaggi. Non si può copiare o ricalcare un’espressione che piace: dev’essere confacente alla situazione in cui ci si trova. Se tutti facessero così le storie sarebbero ancora più espressive, più vive.

E. C.: Allora quel Topolino che ha perso la testa per una svampitella?

R. S.: Ah, una nota dolentissima! È stato un tiro mancino, anche perché è stata ignorata la presenza di Minni, e appunto travisato il carattere di Topolino. Spero di non offendere nessuno dicendo che sono nemico al 100% di questo tipo di storie.

E. C.: Si sente che qui parla il cuore…

R. S.: Ci ho messo tanta e tale passione, che sullo slancio di quell’innamoramento che mi fece portare i primi disegni a Topolino credo di avere fatto qualche cosa di abbastanza notevole. E le assicuro che l’amore non è ancora affievolito. E poi adesso la Disney ha molto potenziato il giornale, e il direttore, Gaudenzio Capelli, m’ha permesso di riprendere a fare storie a strisce. Sì proprio come le faceva il grande Gottfredson.

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