Romano ‘Disney’ Scarpa

Di Fiorello Zangrando, tratto da If Anno II n° 6 dell’aprile/maggio 1974;
Trascrizione di Armando Botto.

Schizzi per il personaggio "Paperetta       Yè-Yè".
Schizzi per il personaggio “Paperetta

Yè-Yè”.

Molto Topolino, sempiterno eroe di carta, ma anche tanto Paperino e altra mercanzia della “banda” disneyana, vedono la luce a fumetti, prima di passare alla stampa, in un atelier che ha sede a Venezia, in Salizzada dei Greci. È qui che l’estro grafico e la fantasia romanzesca di Romano Scarpa — classe 1927, autore anche di cartoon, duecento e passa storie in vent’anni, migliaia d’avventure e di vignette, parecchi personaggi nuovi, e filo diretto con Mario Gentilini, il bravissimo direttore del settimanale che Mondadori pubblica per i bambini proponendo i personaggi del mago di Burbank — si concretano sulle tavole e nelle battute che finiscono poi sul mercato di tutto il mondo. Già, perché il venezianissimo Scarpa è uno degli autori più qualificati e più apprezzati di fumetti disneyani, il migliore degli italiani — lo hanno scritto molti — e uno da affiancare ad Al Levin, a Floyd Gottfredson, a Carl Barks, ad Al Tagliaferro.

Un personaggio, questo narratore per immagini, che mette conto di portare alla ribalta, anche se le lampadine del proscenio gli danno un po’ fastidio. Racconta la sua vita, cominciando da quando, ancora alunno dell’Istituto Tecnico, si appassionava al disegno e poi a Topolino, di cui era stato accanito lettore, e che aveva cominciato a “rifare” per conto suo ancora bambino, sul bancone di vendita nel negozio del padre, panettiere, però su carta prestata dal salumaio, perché era più bianca e più idonea. Naturalmente, anche quando era oramai un mezzo giovinotto, pensava soltanto a sbizzarirsi, senza alcuna previsione di ciò che il futuro gli avrebbe riservato, del “posto” che avrebbe occupato nell’Olimpo dei fumetti. Gli sembrava impossibile concepire le meravigliose storie dell’epoca d’oro di Topolino, anche se l’amarezza fu temperata dalla scoperta che esisteva il lavoro d’equipe.

Romano Scarpa (1970).
Romano Scarpa (1970).

Scarpa esordì col disegno animato (lo vedremo dopo, sotto quest’aspetto), e fu proprio durante lo sviluppo e la stampa di un cortometraggio, a Milano, stabilimenti Donato, che lo studente all’Accademia e all’Istituto d’Architettura di Venezia incontrò il disegnatore e pittore ligure Giambattista Carpi, che lavorava per Mondadori a Topolino, e che lo consigliò d’insistere con Gentilini (al quale Scarpa, qualche anno prima, aveva chiesto di poter sviluppare storie in proprio ispirate al mondo di Disney, ma gli fu risposto che c’era un’abbondante scorta di materiale da smaltire, tutta la produzione che gli eventi bellici avevano ritardato che sarebbe appunto apparsa negli album del dopoguerra). Nel 1953 Scarpa torna da Gentilini, il quale gli commissiona due tavole di una storia sui Sette Nani scritta da Guido Martina. Il risultato viene giudicato soddisfacente, e così si butta anima e corpo a fare fumetti, in pratica abbandonando l’attività dei cartoni animati: “Fu una preziosa ancora”, dice il disegnatore, che ebbe anche l’ardire di chiedere di scrivere lui stesso le storie, anziché limitarsi a disegnare quelle sceneggiate da altri. L’ottenne, questo “privilegio”, e da allora il suo materiale è stato sempre incamerato a scatola chiusa. Gentilini, acuto talent scout, lo aiutò e l’incoraggiò, sicché non fu difficile portare i risultati, in poco tempo, ad un livello eccezionalmente buono.

Studio dal vero per "Biancaneve". La modella (futura signora Scarpa) posa per la realizzazione della vignetta riportata a destra.
Studio dal vero per “Biancaneve”. La modella (futura signora Scarpa) posa per la realizzazione della vignetta riportata a destra.

Adesso, sono passati vent’anni, il lavoro di soggettista e sceneggiatore per il Disney stampato si è un poco rarefatto, sicché Romano Scarpa dedica più tempo alla mise en scene di racconti altrui, perché in questo modo fa meno fatica, anche se i risultati qualche volta non lo soddisfano in pieno. Bisognerebbe che il lavoro d’ideazione gli fosse maggiormente riconosciuto, commenta. E in vent’anni ha scritto più di duecento storie da trenta tavole l’una. Ha inventato una notevole serie di personaggi che, s’è detto, sono oramai entrati nella mitologia del Disney-world. Si chiamano Trudy, la maldestra compagna di Gambadilegno; Atomino Bip-Bip, “spalla” di Eta Beta; Codino cavallo marino, che s’ispirava al clima di Silly Symphonies; Brigitta, la cocciuta e insidiosa innamorata di Paperone; Filo Sganga, gustoso “secondo” di Paperino; Paperetta yè yè, versione beat d’una nipote di Paperina; e Sgrizzo, che era qualcosa di simile a Paperoga, e che, per una coincidenza di tempi, dovette soccombere di fronte a quest’ultimo personaggio, elaborato in America.

Qualche domanda.

Romano Scarpa alla ripresa di "Ainhoo degli Icebergs" (1973).
Romano Scarpa alla ripresa di “Ainhoo degli Icebergs” (1973).

Fiorello Zangrando: Qual è la storia che lei ricorda con maggiore soddisfazione, alla quale è più affezionato?

Romano Scarpa: Be’, le storie che ho raccontato e che, a distanza di tempo, conservano una certa validità, sono parecchie: Topolino e il doppio segreto di Macchia Nera; Topolino e il mistero di Tapioco sesto, Topolino e il Pippotarzan, La leggenda di Paperin Hood, Il carnevale di Paperin Paperone, Pippo e la banda tris, Pippo alle Olimpiadi, fatto a tempo di record l’anno scorso, alla vigilia delle competizioni di Monaco, un brillante e fluidissimo racconto lungo. Ma ce n’è una che sovrasta le altre, Paperino e il colosso del Nilo. La scrissi e disegnai quando si discuteva sui salvataggi dei monumenti di Abu Simbel. Raccontavo di Paperone che doveva spostare un monumento per cercare l’uranio del sottosuolo. Archimede Pitagorico gli offriva alcune soluzioni. Una consisteva nello smontare il monumento, numerare i pezzi e ricostruirlo altrove. Era, la mia, un’ipotesi fantastica, senza pretese scientifiche, ovviamente. Soltanto un paio d’anni dopo ho saputo che quell’idea era stata ripresa da un grande quotidiano, in un articolo intitolato “Walt Disney salva il monumento della Nubbia”, e che in realtà fu messa ad effetto. Non è poco davvero!

F. Z.: E come lei pensa che si debbano raccontare le storie di Disney a fumetti?

R. S.: Io ho sempre cercato di mettere qualcosa in una storia, un senso compiuto, un intreccio, uno sviluppo logico; non mi piacciono le disavventure collegate malamente, a casaccio. E ho anche cercato e cerco di elaborare finali forti, amarognoli, mi piacciono quelli a suspense, come in Paperino e le lenticchie di Babilonia, dove la storia sembra finire con Zio Paperone ridotto a mendicare, perché i Bassotti gli hanno portato via tutto. Ma nell’ultima vignetta (l’ultima di una storia in tre puntate) le lenticchie fioriscono casualmente da un vaso di fiori. Paperone aveva cercato tutti i sistemi per ottenere questo risultato, cioè di far nascere piante da vecchi semi di lenticchie trovate a Babilonia, circostanza necessaria affinché i Bassotti rispettassero un contratto che prevedeva, a tale condizione, la restituzione del patrimonio a Paperone. Ebbene, questa vignetta finale, senza commenti, fa capire che la storia si risolve, con una battuta grafica, ancora a favore dell’“avarastro”.
Non mi piace, d’altra parte, e non l’ho mai fatto, ricalcare e copiare pose e situazioni, che danno al risultato una connotazione stereotipata e schematica.
I personaggi sono veri attori. La loro è una recitazione vera e propria, e dev’essere adeguata al momento in cui agiscono e che vivono.

F. Z.: E Venezia, che parte ha avuto nei suoi lavori?

R. S.: L’ho inserita in tutto Pippo alle Olimpiadi, e l’ho disegnata con particolare amore, è ovvio, anche in una storia scritta da Barosso e intitolata Paperino e l’anello dei dogi.

F. Z.: Che sfogo commerciale ha la sua produzione?

R. S.: Mario Gentilini è riuscito, specialmente da cinque o sei anni a questa parte, ad ottenere che il lavoro dei disegnatori italiani fosse particolarmente apprezzato. Così succede che il Topolino settimanale contiene materiale italiano al sessanta per cento; e questo materiale viene poi utilizzato dal mercato internazionale, in edizioni standard che rimontano le strisce; ma il formato standard si avvale in buona parte di materiale originale italiano, che nel nostro Paese è sfruttato per l’“Almanacco” mensile.

F. Z.: Che cosa pensa del mondo di Disney?

R. S.: È fatto di personaggi universali, non di maschere fisse ed immobili. Topolino, Paperino, Paperone eccetera sono caratteri, umanissimi perché vivono col nostro tempo. Sono sempre attuali con i loro difetti, pregi, slanci, miseria, nevrosi. Per questo penso che, attuali trent’anni fa e oggi, lo saranno anche fra altri trent’anni. I bambini delle nuove leve sono affezionati, come coloro che sono venuti prima, a questo mondo e a questi pupazzi, caratterizzati anche da una linea grafica personalissima, che le imitazioni non hanno minimamente scalfito.

F. Z.: E quale personaggio preferisce?

R. S.: È Topolino. Sarà perché ai tempi della mia fanciullezza egli viveva la sua epoca d’oro; ma anche, credo, perché non è nevrotico, isterico, iracondo, come per esempio Paperino. Topolino è più razionale, più posato; ma soprattutto è un eroe modesto, che sa nascondere le proprie imprese. Rappresenta il tipo medio di un uomo che vive nella società industrializzata. È, tutto sommato, un personaggio positivo.

F. Z.: Ma il mondo di Disney, prefabbricato, non le va stretto?

R. S.: Pur disponendo di personaggi miei, che potrei realizzare, sono certo che non mi darebbero le soddisfazioni, estetica e di racconto, che mi danno quelli di Disney, che sento più miei. Sarà anche perché io ho l’età di Topolino… E poi alle storie che ho disegnato, dall’interno ho dato apporti personali.

F. Z.: Dicono che lei sia il migliore Disney Italiano. Superiore a nomi di tutto rispetto, ricordo soltanto il ligure Luciano Bottaro, il piemontese Angelo Bioletto, il milanese Pier Lorenzo De Vita…

R. S.: Non voglio apparire immodesto. Se da una parte credo di aver capito lo spirito che ha animato Disney, dall’altra mi considero anche l’ultimo dei disegnatori “disneyani”, di fronte ai migliori americani, e riconosco la superiorità tecnicografica dei miei colleghi italiani. Ma ho la presunzione di essere un po’ superiore agli altri dal punto di vista della comprensione del substrato dei personaggi e delle “gag”. Anche rimontandole, per adattare le storie al formato standard, esse si individuano, e vivificano il racconto. Ho insomma cercato di andare a fondo dei personaggi. E ho anche avviato altri su questa strada. Oggi tra i soggettisti di Topolino c’è l’udinese Rodolfo Cimino; tra i disegnatori il pordenonese Giorgio Bordini e i veneziani Sergio Asteriti, Giorgio Cavazzano, Luciano Gatto (fino a quattro anni fa c’era anche il povero Luciano Capitanio) tutti miei “allievi”.

F. Z.: Che cosa pensa del fumetto d’oggi?

R. S.: È difficile rispondere, non riesco a tener dietro alla folta produzione. Dal punto di vista grafico comunque ci sono fumetti ineccepibili. Si è arrivati ad un livello che supera nettamente i precedenti. La sostanza, in genere, invece non mi entusiasma. Uno che stimo di più, perché è autentico autore, è Hugo Pratt.

Schizzi per la storia "I parastinchi di Olympia".
Schizzi per la storia “I parastinchi di Olympia”.

Ma il discorso ricade su Romano Scarpa autore di disegni animati. L’antico amore sta infatti compiendo un braccio di forza col fumetto. Scarpa cominciò con prove d’animazione nel 1941, finchè non gli capitò di vedere “Nel paese dei ranocchi” di Antonio Rubino e “Anacleto e la faina” di Roberto Sgrilli. Ne rimase ad un tempo meravigliato e sgomento. Meravigliato per la perfezione, sgomento perché altri erano arrivati prima di lui a fare qualcosa di accettabile dal pubblico. Lesse qualche articolo su riviste, senza peraltro capire che su un rodovetro il disegno vi si doveva fare da una parte, e la coloritura dall’altra. Con queste poche nozioni, con un’attrezzatura di fortuna, una Debrie a manovella, e Palazzo Camerlenghi a disposizione, nel 1945-46 realizzò “E poi… venne il diluvio”. Collaboratori senza esperienze precedenti, storia delle disavventure di un bambino in un mondo a metà strada tra quello degli “Antenati” di Hanna & Barbera e quello del Topolino nella preistoria di Levin. Il risultato fu decente, ma i costi e le carenze tecniche avevano il loro peso. Nel 1947 Scarpa partecipa, con uno stand – Come nasce un disegno animato — alla Mostra internazionale di tecnica cinematografica che si svolge al Lido, quando vi vengono proiettati i lungometraggi “proibiti” di Disney e i saggi di Nino Pagot per “I fratelli Dinamite”. Espone un modello di multiplane che desta interesse. Ecco perché l’anno dopo, in Salizzada dei Greci, riesce ad impiantare uno studio, dove il produttore di film pubblicitari Ferry Mayer, triestino, gli consente prima di perfezionare la tecnica, poi di produrre alcuni short, anche in Ferraniacolor ed Anscocolor. Per trovare collaboratori, mette un annuncio sui giornali. Spiega che cerca disegnatori e lucidatori per film tipo Disney. Tra gli altri risponde una donna che si offre per lucidare scorrimano e pomi d’ottone. Ma rispondono anche Lino Ferraretto, Adriano Stringari e Renzo Vianello, oltre a Bordini. Faranno tutti strada, come grafici e tecnici pubblicitari.

A Mayer successe Mario Casamassima, che aiuta Scarpa a fare un cortometraggio, “La piccola fiammiferaia”, che ebbe fortuna, anche perché, dice l’autore, abbinato ad “Attak” di Robert Aldrich. La lavorazione fu laboriosa. Attrezzatura: un complesso rilevato a Firenze dallo studio di Piero Crisolini Malatesta, che realizzò un paio di cortometraggi nel 1944. Un incidente (per scansare l’acqua alta a San Marco si distorse una caviglia, e così non potè più continuare il lavoro di cinema, che richiedeva speditezza nei movimenti) lo avvicinò al fumetto. Ma negli ultimi due anni Scarpa, pensando alla televisione a colori, ha realizzato un delizioso lavoro, “Ainhoo degli iceberg”, che sta cercando adesso il canale giusto per arrivare al pubblico.

È la storia di una bambina lappone, Karen, rapita da un cattivone, Bullock, il quale l’adibisce ai lavori domestici. La salva un amichetto, Ainhoo, che la porta nella sua villetta-iceberg, dove, peraltro, la scena che le si presenta non è molto diversa da quella della stamberga del rapitore. E la ragazzina allora, prima d’andarsene, esclama ad Ainhoo: “Hai bisogno anche tu di una donna di servizio? E allora, perché mi hai salvato?”. Una morale femminista, almeno in sordina, conclude in sordina Romano Scarpa.

Note

Si ricordi che l’articolo è del 1974… si cita il celeberrimo “Al Levin” più volte (altri non era che un’invenzione di Castelli, prima che si conoscesse l’identità di Floyd Gottfredson). Anche la corretta ortografia di “Al Taliaferro” evidentemente non era ancora nota. Abbiamo lasciato queste e altre imprecisioni (le descrizioni di Atomino, Filo Sganga, “Attak”, eccetera) come documento “storico”